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Il rischio d’impresa in tempi di crisi e mercati globali

Dott. Tomaso Trevisson Scritto da 

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Nell’attuale contesto economico, caratterizzato da una complessità crescente, testa tra globalizzazione dei mercati e stagnazione di interi settori, quello del rischio sembra essere un concetto sempre più centrale, divenuto perno dell’agire aziendale e fondamento stesso della sfida imprenditoriale. La dimensione del rischio nasconde, accanto a potenziali e inevitabili pericoli, anche e soprattutto una serie di opportunità che, se ben integrate nei processi aziendali,

possono permettere di ridurre gli effetti negativi della crisi e far intraprendere la via del rilancio. Questo è tanto più vero quando si fa riferimento alle piccole e medie imprese, il vero motore della nostra economia nazionale (rappresentano oltre il 99% del tessuto imprenditoriale e occupano l'80,3% della forza lavoro nel settore privato non finanziario), che ha subito maggiormente le conseguenze dell’attuale difficile congiuntura economica.
Il profilo di rischio delle imprese non può che risultare alterato da una situazione che impone, sempre più, la ricerca di soluzioni aziendali innovative, l’apertura di nuovi canali di vendita e la penetrazione in mercati prima inesplorati. Comprendere, allora, questo nuovo profilo, valutare, cioè, quali strumenti e competenze mettano attualmente in gioco le imprese italiane per gestire al meglio i rischi cui sono esposte, diventa fondamentale per assorbire le inevitabili perdite e indirizzare l’azione quotidiana all’imperativo della produttività.

Sono stati diffusi nei giorni scorsi i risultati della prima edizione dell'Osservatorio sul Risk Management nelle PMI italiane, realizzato dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, nell'ambito delle attività di ricerca della Cattedra Cineas di Global Risk Management, in collaborazione con the FinC - the Finance Centre e con CONFAPI Industria.
Obiettivo dell’indagine era, in particolare, analizzare lo stato dell’arte relativo alle pratiche di gestione del rischio adottate dalle imprese italiane non finanziarie di piccole e medie dimensioni, dunque studiare la loro cultura di rischio, i metodi scelti, evidenziare le aree di rischio più rilevanti, la frequenza dei controlli, l’intensità degli investimenti, la propensione al rischio (risk appetite).

PERCEZIONE
Su un campione di 427 aziende distribuite su tutto il territorio nazionale e appartenenti a tutti i settori dell’economia, si è innanzitutto cercato di indagare la percezione che le imprese hanno del concetto di rischio e della loro esposizione in tal senso.
Ben il 53% del campione lo percepisce come un’opportunità da cogliere e da gestire attivamente, contro un 31% che lo vede come qualcosa di negativo da evitare ad ogni costo e un 16% che non lo considera tra le scelte strategiche, ritenendolo un aspetto marginale rispetto alla gestione del business. In parziale contrasto con tale consapevolezza, emerge come a spingere verso l’adozione di un sistema di gestione del rischio siano soprattutto fattori esogeni.


Il 33% delle imprese considerate afferma il prevalere di un approccio proattivo alla gestione dei rischi, volto, cioè, all’identificazione delle diverse tipologie di rischio e allo studio delle correlazioni esistenti tra dinamiche competitive e fattori di rischio (percentuale che sale al 45% se si considerano le sole aziende che hanno dichiarato di vedere delle opportunità nell’assumere rischi). Nel 25% dei casi si adotta invece una copertura sistematica di specifiche categorie di rischio precedentemente mappate, infine il 15% utilizza solo polizze assicurative e il 27% adotta un approccio reattivo.

Tra le varie tipologie di rischio, sono quelli operativi a essere presi maggiormente in considerazione: si presta attenzione soprattutto (53% del campione) al rischio connesso ai processi aziendali, ossia all’eventualità che qualche imprevisto incida sul corretto svolgimento del core business.
Con riferimento ai rischi strategici, sono invece i rischi di concentrazione e di controparte a essere più considerati (rispettivamente dal 51% e dal 49% del campione). Decisamente inferiori sono le cautele riservate al rischio di reputazione (19%), malgrado la centralità dello stesso per l’immagine e la credibilità verso gli stakeholder, dunque per la sopravvivenza del business. Ancor meno considerati i rischi politici (11%) e normativi (18%), segnale di una norma vista più come obbligo da adempiere che come stimolo al miglioramento delle procedure.
Tra i rischi finanziari, prevalgono quello di credito (60%) e di liquidità (32%), segue il rischio dei tassi d’interesse e solvibilità (30%). Ancora poco considerato è, invece, il rischio di cambio (15%), nonostante la crisi spinga sempre più le imprese a guardare oltre i confini nazionali per rilanciare il proprio business, attraverso lo scambio con Paesi dotati di monete diverse dall’euro. Maggiore attenzione dovrebbe essere dedicata, visto il contesto turbolento attuale, anche al rischio di fluttuazione dei prezzi delle commodity (14%) e a quello di inflazione (7%).


Ma come percepiscono il proprio profilo di rischio le PMI italiane? Il 58% di esse ritiene che sia medio, il 25% lo ritiene basso e il 17% alto. I settori più “rischiosi” sembrano essere quello delle costruzioni e del commercio, rispettivamente con il 29% e il 15% del campione che ritiene alto il rischio (contro l’8% della manifattura e il 4% dei servizi). Il 35% del campione segnala un aumento del proprio profilo di rischio negli ultimi cinque anni e il 25% si aspetta un ulteriore aumento nei prossimi anni. Si intravede comunque una percezione di incertezza: domina, tra le prospettive future, l’idea di un profilo di rischio volatile (37%), mentre è minima la quota di quanti prevedono una diminuzione del rischio (5%).

E come percepiscono, ancora, le PMI italiane, il mercato in cui operano? Il 54% lo vede stabile o in contrazione, il 10% lo considera volatile, il 7% crede che la situazione sia altamente negativa, solo il 13% intravede una crescita e il 16% vede un’elevata competitività.
I dati riflettono – com’è evidente – la stagnazione dell’economia domestica, che spinge le imprese a recuperare competitività, aumentando il volume d’affari: tra le operazioni maggiormente effettuate, negli ultimi tre anni, dalle imprese intervistate, figurano l’ingresso in nuovi mercati, l’ampliamento del portafoglio prodotti e l’apertura di nuovi canali di vendita. Si conferma, di conseguenza, la forte spinta all’internazionalizzazione delle PMI italiane, che riguarda il 59% del campione, e la conseguente inevitabile alterazione del profilo di rischio. Per gestire l’incertezza dei nuovi mercati e ridurre gli eventi inattesi, sempre più importante – ci dicono i promotori dell’indagine – è, anche per le PMI italiane, adottare e ottimizzare delle specifiche tecniche di risk management.


A incrementare il profilo di rischio delle PMI italiane non è, in realtà, solo l’imminenza di una crisi la cui soluzione sembra ancora lontana: essa è certo determinante (e non solo per le aziende che hanno scelto la via dell’internazionalizzazione, ma per qualsiasi attività imprenditoriale costretta a confrontarsi con le difficili dinamiche di mercato), tuttavia contribuiscono anche alcuni fattori tecnologici (l’avvento dei new media e delle nuove tecnologie), l’attenzione crescente all’ambiente e alla dimensione sociale, la normativa sempre più stringente, l’esigenza, in sostanza, di relazionarsi con i mutamenti di ordine culturale.


PROCESSO
Con riferimento alle procedure adottate dalle PMI italiane nell’ambito del risk management, l’indagine rileva come la maggior parte delle aziende interrogate (41%) formalizzino la fase di valutazione dei rischi. Le fasi di identificazione e gestione del rischio sono formalizzate entrambe dal 34% del campione, mentre meno formali – ma pur sempre presenti – sono le fasi di monitoraggio dei fattori di rischio (23%) e di reporting e comunicazione ai vari livelli dell’organizzazione (10%). L’82% delle imprese formalizza, inoltre, meno di tre fasi su cinque, e solo il 3% le formalizza tutte.


In particolare, relativamente alla prima fase di identificazione dei fattori di rischio, si nota come le PMI italiane si basino soprattutto su esperienze passate (49%) e su analisi strutturate dei processi (48%). Seguono checklist (24%) e le ispezioni (22%), mentre marginale è il ricorso a brainstorming (9%), a modelli specifici (FTA, FMEA, HAZOP, HACCP, al 6%), ad analisi swot (5%), a questionari per i dipendenti (3%) e a interviste o focus group (2%).

Nella fase di valutazione dei rischi emerge come siano notevolmente considerati gli impatti di tipo finanziario (63%), molto più di quelli di tipo reputazionale (15%); sono, invece, tenute ancora in scarsa considerazione le probabilità di accadimento (37%). Prevalgono, nella valutazione, tecniche di tipo quantitativo (35%, percentuale che sale al 53% con riferimento alle sole imprese che hanno dichiarato un profilo di rischio alto), rispetto a quelle semi quantitative (14%), qualitative (5%) e pure rispetto a una combinazione di queste tecniche (31%).

Nella fase di gestione, le modalità maggiormente adottate sono, per quanto riguarda i rischi di natura operativa e finanziaria, la riduzione (risk reduction, minimizzare cioè la probabilità di accadimento e l’impatto di eventi rischiosi attraverso tecniche di prevenzione e protezione) e il trasferimento a terzi (risk transfer: si assume una posizione rischiosa opposta a quella da gestire che sfrutti il principio della compensazione per ridurre il rischio complessivo, ad esempio la stipulazione di una polizza assicurativa che copra rischi poco probabili ma notevolmente dannosi, come incendi e catastrofi naturali).  Per gestire i rischi strategici si adottano, invece, data la loro natura, soprattutto i contingency plans (in sostanza dei piani di emergenza alternativi, l’accantonamento di un certo ammontare di risorse finanziarie per intervenire in caso di eventi inattesi e potenzialmente dannosi, al 18%).

Si conferma poi la marginalità della percentuale di imprese che tengono in considerazione il rischio di cambio, anche considerando le sole imprese che effettuano transazioni con Paesi che usano una moneta diversa dall’euro.


Con riferimento alla fase di monitoraggio del processo di risk management, emerge come essa si svolga una o due volte all’anno (rispettivamente nel 32% e nel 37% dei casi), raramente con frequenza maggiore.
Gli indicatori utilizzati per misurare la performance e l’esposizione al rischio dell’impresa non sembrano essere particolarmente sofisticati: si monitorano principalmente il risultato operativo (nel 37% dei casi) e il risultato della gestione ordinaria (28%), mentre si ricorre raramente a EVA (4%), VaR (2%), RAROC (1%), volatilità degli utili e ad altre misure risk-adjusted (5%).
Lo strumento IT maggiormente utilizzato per supportare il processo di risk management è Excel (39%), tuttavia ben il 22% del campione dichiara di non ricorrere a nessun strumento.

RISORSE
Per quanto riguarda i rischi strategici e normativi si rileva una certa corrispondenza tra esposizione percepita e risorse spese per gestirla. Leggero sbilanciamento, invece, con riferimento ai rischi finanziari e a quelli operativi: solo il 41% delle imprese destina risorse primariamente al rischio finanziario, malgrado questo fosse percepito come principale dal 48% del campione; per contro il 46% delle PMI destina risorse al rischio operativo, nonostante esso fosse percepito come principale solo dal 35% del campione. Tale sbilanciamento dipende non tanto da una mancanza di consapevolezza, quanto piuttosto dal costo più elevato imposto dalla gestione di alcune tipologie di rischio.

La spesa media sostenuta dalle aziende per le attività legate alla gestione del rischio aumenta, in valore assoluto, con l’aumentare della dimensione delle imprese, mentre in termini percentuali la tendenza è opposta. Si tratta, dunque, di un aumento meno che proporzionale.

RESPONSABILITÀ E COMUNICAZIONE
Solo l’1% delle imprese interrogate ha previsto, all’interno della propria struttura, un addetto dedicato a tempo pieno alla gestione del rischio. L’11% si rivolge a una figura esterna, mentre la maggior parte (88%) assegna il compito a una figura interna, che si occupa del risk management a tempo parziale. Tale conclusione riflette l’organizzazione tipica delle PMI, dove mancano spesso confini netti tra ruoli e competenze.

La cultura del rischio rappresenta una conquista abbastanza recente, dato che ben il 72% delle imprese adotta tecniche di risk management da meno di 5 anni e solo il 13% da più di 10 anni. Nel 28% dei casi il Consiglio di Amministrazione non è coinvolto nel processo di gestione del rischio, nel 43% esso definisce la strategia, mentre nel 27% monitora che l’esposizione al rischio sia coerente con il profilo desiderato. Il coinvolgimento del CdA aumenta poi all’aumentare della maturità del sistema di gestione del rischio.
Solo l’1% del campione considera il livello di rischio assunto per definire le proprie politiche retributive.

L’85% del campione non ha ancora introdotto alcuna attività formativa rivolta ai dipendenti, anche se il 17% promette un rimedio prossimamente. I corsi di formazione ad hoc rappresentano il metodo maggiormente sfruttato per sviluppare le competenze necessarie di tutti i dipendenti (12%) e dei responsabili della gestione del rischio (23%), mentre il workshop costituisce l’iniziativa prediletta per la formazione di top management (19%).

La dimensione dell’impresa non sembra, infine, influire sulla scelta dei destinatari della comunicazione in materia di rischi aziendali: questa sembra essere rivolta quasi esclusivamente ai diretti interessati, a prescindere dal numero di dipendenti (78% nel caso di imprese con numero di dipendenti compreso tra 10 e 49, 73% nel caso di imprese con numero di dipendenti compreso tra 50 e 249).
La dimensione aziendale non influisce poi molto nemmeno sulle modalità di comunicazione dei rischi, tuttavia si nota – con l’aumentare delle dimensioni – una leggera diminuzione della pratica verbale (dal 65% delle imprese con numero di dipendenti compreso tra 10 e 49, al 43% di quelle con 50-249 dipendenti), a favore della documentazione ad uso interno (da 34% al 52%).